martedì 25 ottobre 2011

Negozi aperti, cervelli chiusi.

In questo periodo pre-elettorale e di crisi economica, in Spagna è in corso un confronto (tra i tanti) sulla liberalizzazione totale degli orari commerciali.
Ha dato il "la" alla questione il progetto della governatrice della Comunidad de Madrid, che prevede a breve la completa libertà di apertura di tutti gli esercizi fino a 750 metri quadrati di superficie. Invece i negozi specializzati in arredamento, bricolage, veicoli, giochi, articoli sportivi e costruzioni, potranno aprire tutte le domeniche dell'anno senza restrizioni.
Nelle previsioni del governo regionale della Comunidad di Madrid, questo aumenterà le vendite di 458 milioni di euro all'anno nel solo commercio al dettaglio, con un incremento di PIL di quasi 200 milioni di euro e più di 4.000 posti di lavoro.
La scelta è in linea con con le raccomandazioni della Comisión Nacional de Competencia (l'Autority sulla concorrenza), e con le direttive di tutti gli organismi sovranazionali quali la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l'OCSE.
Evidentemente di questa scelta sono felici le grandi catene di super e ipermercati, esse spingono affinché il prossimo governo che uscirà dalle urne del 20 novembre, estenda al territorio nazionale questa scelta ed elimini i limiti di superficie.
Contrari sono le organizzazioni del piccolo commercio, i sindacati dei lavoratori e le organizzazioni dei consumatori.
Queste associazioni chiedono che si lasci la normativa esistente e la competenza alle regioni.
La loro paura è che la liberalizzazione colpisca al cuore il piccolo commercio a base famigliare, costringendolo a competere con le grandi superfici pur non avendo le risorse umane necessarie per attendere al pubblico in un sistema senza limiti di orario. In più, uscendo dal mero campo economico, si sottolinea come vi sia la necessità di salvaguardare il tempo libero (el ocio) dei commercianti, dei lavoratori e dei consumatori, mentre la liberalizzazione degli orari imporrebbe un notevole aumento del tempo passato a fare shopping a scapito delle libere attività di svago.
Il dibattito, non c'è dubbio, è interessante, e tocca argomenti non squisitamente economici, e che attengono alla qualità della vita. A cui gli spagnoli tengono molto (ma anche gli italiani).
Un dibattito che, per esempio, ha "spaccato" persino la Chiesa spagnola, che si è divisa fra i fautori della liberalizzazione (più attenti all'economia) e i contrari più legati ad una visione "etica" delle necessità di organizzazione sociale, o addirittura tradizionale, nel senso di rispetto dei giorni di festa.
Mi sembra che, se ci fermiamo ai soli interessi delle parti (grandi catene e piccolo commercio) e allo stato attuale delle cose, questo dibattito sarà uno dei tanti che danno origine a polemiche sterili.
Soprattutto perché bisognerebbe incorporare nella discussione alcuni elementi oggettivi che hanno già prodotto mutamenti nei costumi sociali e con cui non fanno i conti né i pesci grandi né quelli piccoli. Uno di questi, per esempio, è il commercio elettronico. Nella sola Andalucia il 28% dei commercianti utilizza il canale di vendita elettronico, e questo nel solo 2010 ha creato un fatturato di 829 milioni di euro. Il direttore di Google España la settimana scorsa ha dichiarato che nel 2011 il commercio elettronico nel paese iberico arriverà a fatturare 13 miliardi di euro.
Vista da questo lato, la liberalizzazione degli orari dei negozi sembra il problema minore di adattamento alle nuove domande dei consumatori.
Se poi aggiungiamo che tutti gli indicatori dei consumi danno si costante la vendita di prodotti di lusso, assieme però a una marcata tendenza dei consumatori delle fasce medie e basse di reddito ad orientarsi verso il marchio privato (marcas blancas) e ai prodotti di primo prezzo voltando le spalle ai prodotti di marca, sembrerebbe proprio che il problema degli orari conti proprio poco per il futuro del piccolo commercio. Il quale ha sempre più difficoltà a competere con la grande distribuzione su questi prodotti perché non li può vendere, in quanto marchi propri dei grandi network commerciali.

La questione quindi è un po' più ampia di quanto la vedano le associazioni di categoria (come sempre). Si tratta di permettere una più ampia possibilità di scelta ai consumatori, favorendo tuttavia una riqualificazione del negozio al dettaglio, e incentivare l'uso dei nuovi strumenti di vendita permessi dalle recenti tecnologie.
Tutto all'interno di una programmazione pubblica degli orari delle comunità umane (servizi pubblici e privati, commerci, lavoro, ocio) che permetta alle persone di poter gestire meglio i propri tempi di vita e di lavoro. Tuttavia questo elemento, essenziale per contemperare gli interessi delle parti in campo, e soprattutto per favorire il miglior accesso dei cittadini ai servizi incrementando lo sviluppo commerciale e aumentando gli occupati, non fa parte di alcun dibattito.
Gli estremi della discussione politica vanno dal semplice approccio liberista per ideologia, al semplice conservatorismo dello status quo per paura del nuovo.

Sono un fautore delle liberalizzazioni, penso che, se fatte correttamente, siano una grande opportunità di libertà economica e di vita per la stragrande maggioranza della popolazione.
In tutti i campi, non solo nel commercio. Anzi, penso che prima vadano fatte nelle professioni, nelle telecomunicazioni, nei servizi pubblici non costituzionalmente garantiti (per me sanità, scuola, giustizia, e difesa vanno gestiti dallo Stato; può esistere la scuola privata senza oneri per lo Stato, come recita la nostra Carta).

Ma fare le liberalizzazioni senza investire in innovazione, senza creare nuovi servizi e prodotti utili alla vita delle persone (e non solo griffe e loghi), senza aggiungere qualità a quelli esistenti, porterà a risultati di breve respiro.
La crisi economica dovrebbe aiutarci a ripensare il nostro modello di sviluppo, senza buttare il bambino con l'acqua sporca, si intende. Però lavando ben bene il bambino dalla sporcizia che si è accumulata.

P.S.: Viaggiando negli USA ho sempre provato disagio a vedere i giovani e le famiglie passare ordinariamente la domenica nei "mall", i grandi centri commerciali che offrono, assieme allo shopping, anche servizi per il tempo libero (cinema, palestre, sale di lettura, giochi di simulazione dal vivo). Pensavo che sarebbe stato gramo vedere esportato questo modello "domenicale" anche in Italia (e in Europa).
Rimango sempre dello stesso parere, per me la spesa si fa durante la settimana o il sabato mattina, se vado in un centro commerciale la domenica è per andare al cinema (perché ormai non ci sono più sale in centro città).
Per cui la questione diventa anche la qualità dell'offerta culturale (o sportiva, o del tempo libero) e la capacità di attrazione della stessa riprendendosi i luoghi dei paesi e delle città.
Sono tempi di vacche magre, e gli enti locali non possono più investire come una volta in strutture e in eventi. Però possono favorire come non mai un'economia privata del loisir e della cultura, se è vero che la spesa individuale e delle famiglie in questo campo è in costante aumento. Magari traendone un vantaggio in termini di entrate per i propri bilanci.








domenica 23 ottobre 2011

I rapporti tra Italia e Spagna sono antichi...

Video YouTube sulle rovine di Italica - Santiponce (Sevilla)

Queste sono le rovine di Italica, detta anche Sevilla La Vieja, il più grande insediamento romano nella provincia Betica (sud della penisola iberica). Fu fondata da Scipione l'Africano.
Qua sono nati gli imperatori Trajano e Adriano.
La maggior parte dell'insediamento è ancora da riportare alla luce. Quello che rimane della città é stato saccheggiato e rubato nei secoli.
Ma posso assicurare che visitare Italica è un evento da non perdere se venite in Andalucia.

sabato 22 ottobre 2011

Eolico in Spagna, la fonte più importante.

Che le pale girassero vorticosamente in Spagna, lo si sapeva da molto tempo. Però il 2011 è stato l'anno del record di produzione di energia dall'eolico.
Già dal marzo scorso l'energia prodotta dal vento ha superato tutte le altre tecnologie. Sono stati immessi nella rete elettrica 4.738 Gigawatt/h, superando così il 21% della produzione totale.
Le energie rinnovabili, compreso l'idroelettrico, hanno soddisfatto il 42% del fabbisogno spagnolo (in Italia siamo al 31%, in Germania al 17% però qua l'idroelettrico è limitato).
Rispetto al 2009, e con l'economia in crisi, il settore delle energie rinnovabili in Spagna ha prodotto un aumento dei posti di lavoro del 4%.
L'energia pulita è una solida realtà in Spagna, lo potrebbe essere anche in Italia se non si fosse perso anni a rincorrere la tecnologia nucleare dismessa dalla Francia.

domenica 9 ottobre 2011

La memoria corta fa dimenticare nomi e cognomi.

Non sono un economista, non mi occupo di macroeconomia. Ricordo ben poco degli studi di scienza delle finanze, dovrei sicuramente ripassarli.
Però sono ventisette anni che lavoro nel mondo delle imprese e ho a che fare, giornalmente in Spagna e in Italia per conto delle aziende per le quali lavoro, con le banche, la stretta creditizia e le garanzie che esigono, la crisi dei consumi, e i clienti che pagano sempre più tardi.
Ora, non credo che quello che è successo dal 2008 in poi sia qualcosa di così nuovo e oscuro. Anzi la dinamica della crisi, iniziata con il default delle banche americane esposte con i mutui "subprime", e poi continuata con il rischio di default greco, ha qualcosa di "deja vu".

Succede sempre così : prima crollano i valori gonfiati in qualche settore, la perdita di prezzo si estende rapidamente a tutto il mercato, le banche non hanno più liquidità o sono insolventi, la crisi bancaria si risolve in una stretta creditizia, le imprese devono ridurre il ciclo di acquisto-produzione-vendita a causa della minor disponibilità di finanziamento, diminuisce il PIL, aumenta la disoccupazione, si consuma meno, inizia la recessione e, nel peggiore dei casi, l'economia va in depressione. Aumenta il deficit della bilancia commerciale.
Gli stati vedono diminuire il gettito delle imposte e aumentare la spesa pubblica per sostenere il reddito delle masse disoccupate o con basse fonti di entrata. Questo porta a un aumento del debito pubblico e a ripagare con più interessi i titoli di credito (bond) emessi per finanziarlo.
Chi ha la possibilità di comprare questi titoli va a vedere se è realistico che gli possano venire pagati gli interessi alla scadenza, poi verifica anche se il debito aumenta o diminuisce in relazione alle previsioni sul futuro dell'economia.

Chi non è d'accordo con questo schema, alzi la mano.

Penso che sia dovuto a questo, il fatto che gli USA non sono considerati a rischio, pur avendo 27 $ di debito (stato federale, imprese e privati) per ogni dollaro emesso in circolazione. Hanno un unico centro di governo dell'economia; esportano alta tecnologia; la domanda interna, pur contratta, è stimolata dai piani fiscali e dagli incentivi alle imprese, in una prospettiva di compensazione delle entrate statali dovuto all'aumento del gettito per il rilancio dell'economia. E' una scommessa, ma è anche una politica economica (bisognerebbe dirlo a Oscar Giannino!)

In Europa che è successo invece?... già, in Europa.
Passati gli anni dello sforzo per la convergenza dell'Euro, ogni stato se ne è andato per i fatti suoi. L'Europa, alla fin fine, esiste solo come struttura tecno-burocratica, e non è più sentita come obiettivo storico, e di organizzazione istituzionale e di governo delle genti e comunità del continente.
Perché, dopo la moneta unica, bisognava avere anche un governo unico dell'economia, e una Banca Centrale Europea che sapesse gestire la politica monetaria non solo in funzione dell'inflazione (il riflesso weimariano dei tedeschi...), ma con un occhio all'economia reale.
Adesso che è arrivata a tradire lo statuto che le era stato assegnato, comprando titoli pubblici italiani e spagnoli sul mercato secondario, è quasi fuori tempo massimo.
Francia e Germania stanno gestendo (da soli) il rischio del default greco ritardando la verità sul fatto che esso non è evitabile. Come mia madre, bravissima economista familiare, avrebbe gestito la disoccupazione del marito e dei figli in famiglia. Solo che l'Europa non è una famiglia, è il mercato più grande e importante del mondo. Imporre agli altri stati sforbiciate senza chiedere investimenti e liberalizzazioni dei mercati, fa solo peggiorare le cose.

Ma, vivaddio, possibile che nessuno ricordi che da quando ci sono Sarkozy e Merkel si sono assestati colpi mortali:
1) alla politica di convergenza fiscale europea impostata dall'allora commissario Monti;
2) alle istituzioni comunitarie, privilegiando il metodo "intergovernativo" da loro scelto;
3) alla necessità di porre sotto controllo le attività dei derivati promossi dalle banche;
4) all'innalzamento delle riserve bancarie obbligatorie per stabilizzare gli istituti di credito (alla faccia di Basilea 2...);
5) all'azione politica internazionale dell'Europa (povera Catherine Ashton, surclassata sempre e dovunque dal trio Sarkozy, Merkel, Cameron... ).

Da almeno 6 anni l'Europa non ha più obiettivi alti, è stato bloccato il processo di unificazione.
E siccome l'Europa non ha un governo federale eletto, e dipende dalla volontà dei singoli paesi che lo compongono, penso che la responsabilità del fallimento europeo abbia un nome e un cognome. Anzi, diversi nomi e cognomi, quelli dei governanti dei paesi più forti di questi ultimi anni. Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Polonia, Ungheria.
Passate in rassegna questi nomi e cognomi. Poi guardate a che partiti e idee fanno riferimento. Poi verificate quale idea di Europa hanno i loro partiti.
Poi informatevi a dove siamo arrivati con la crisi. Poi fermatevi e pensate.

Non sarebbe meglio avere tanti (piccoli) Obama in ogni governo degli stati dell'Unione Europea?






sabato 8 ottobre 2011

Ponti addio?

La CEOE (Confederación Española de Organizaciones Empresariales), cioé la Confindustria spagnola, ha proposto in questi giorni di passare nove delle dodici festività infrasettimanali annuali al venerdì o al lunedì.
Dalle amministrazioni regionali del nord, soprattutto dalla Catalunya e Payses Vascos, è venuto un plauso alla proposta. Così è stato anche per il coro di si che è venuto dalle banche e dalle associazioni delle piccole e medie imprese. Quasi tutti sono d'accordo che la produttività del sistema Spagna ne trarrebbe giovamento, non sottraendo, nel contempo, diritti acquisiti ai lavoratori.

Unica voce discorde la regione Andalucía. Infatti quasi il 12% del Pil della comunidad si basa sul turismo, e i ponti sono essenziali nell'economia turistica della regione, sia per attirare utenti dalle altre regioni, sia per il turismo endogeno.
Secondo l'assessore al Turismo di Andalucía "il turista del XXI secolo è sostanzialmente cambiato" rispetto a qualche decennio fa, "e i ponti sono un'offerta molto importante per rompere la stagionalità", e poter avere un tasso di sfruttamento più alto delle infrastrutture turistiche, e di conseguenza più efficienza nel settore.
Senza contare che la regione ha investito buona parte del budget a disposizione per promuovere l'offerta turistica proprio sui ponti.
Infatti, se mediamente a ogni giorno di festività infrasettimanale associamo almeno un giorno di ponte, risulta che la proposta potrebbe far crollare i soggiorni dovuti a queste feste, tenendo in conto che molte famiglie troverebbero molto meno appetibile dover organizzare il viaggio con una giornata in meno a disposizione.

In questo caso, dove l'efficienza della grande parte dell'economia si contrappone all'efficienza di un solo settore (ma strategico in Spagna), forse si tratterebbe di fare un calcolo di convenienza e vedere, al netto di benefici e costi totali, cosa effettivamente guadagna il sistema economico in generale. Magari facendo simulazioni sui giorni effettivi di festività da accorpare al fine settimana.
Forse un equilibrio che compensi il calo del turismo in Andalucía con la maggior efficienza del sistema economico, si può trovare.


venerdì 7 ottobre 2011

Ma quanto vale lo spagnolo?

La domanda é di quelle che sembrano inutili: una lingua come lo spagnolo (castigliano) ha un valore economico?
Per rispondere bisogna conoscere qualche dato.
Il castigliano, nelle sue varie accezioni e varianti, è la lingua madre per circa 400 milioni di persone sul pianeta, è la quarta più parlata al mondo in quanto si presume che la usino pù o meno correntemente come lingua straniera altri 150 milioni, è usata su Internet da 136 milioni.
Basterebbe questo per rispondere affermativamente al quesito.
Infatti, partendo dal peso specifico di questo idioma nel mondo d'oggi, sembrerebbe ragionevole quantificare il suo impatto come supporto alle attività produttive e commerciali delle economie dei paesi di lingua spagnola.
Prendo spunto da un interessante articolo apparso questa settimana sull'inserto "Empresa" del giornale ABC.
La Fundación Telefonica nel 2005 ha finanziato un progetto di studio sul valore economico dello spagnolo, coinvolgendo come ricercatori importanti docenti di Università della Spagna.
Ne risulta che attorno alla lingua castigliana esiste un giro d'affari enorme in tutto il mondo, solo in Spagna l'industria culturale in spagnolo muove più di 30 miliardi di euro.
Il perno dello studio è dato dal principio secondo il quale la lingua è una risorsa economica, sia per mezzo delle industrie associate all'uso dell'idioma, sia per il fatto che facilita le transazioni economiche e commerciali tra soggetti che condividono in comune questa lingua.
La ricerca, tuttavia, sottolinea che la lingua (tutte le lingue) è una risorsa economica con caratteristiche proprie specifiche.
In primo luogo è un bene senza costo di produzione, nella misura che che offre un valore agli utilizzatori senza che si conosca quanto costa "creare" una lingua.
E poi è un bene che non si consuma con l'utilizzo, al contrario di quello che succede con le altre risorse.
In terzo luogo, è un bene di cui non si può appropriare nessuno, né attraverso i brevetti, né con la forza.
E'una risorsa con un costo di accesso unico, perché anche se può costare soldi apprenderla, nessun utilizzatore è obbligato a ripagare qualcosa per usarla, a differenza degli altri beni naturali o prodotti.
Secondo gli studiosi che hanno preso parte alla ricerca in questione, questa lingua guadagnerà ancora più posizioni nel mercato globale solo se le economie che la sostengono saranno più competitive e i governi che formano la comunità panispanica saranno sempre più democratici e trasparenti (con chiaro riferimento ai processi di cambiamento che si stanno sviluppando in America Latina). Infatti l'espansione di una lingua si basa prevalentemente nei fattori di crescita economica, coesione sociale e stabilità democratica.

Una cosa sicuramente mi ha colpito. Ero abituato da anni ad avere l'idea di un rifiuto, da parte delle vestali della lingua ufficiale castigliana, delle contaminazioni straniere (soprattutto inglesi) nel linguaggio comune, e soprattutto tecnologico. In Spagna ancora oggi non si usano parole inglesi per definire gli elementi hardware e le funzioni e parti del software (come in Francia). Da anni vi è una polemica nazionale sull'uso dello "spanglish" nel linguaggio di tutti i giorni, ma nella sostanza il dilagare di vocaboli e fonemi stranieri non ha assunto le dimensioni che troviamo in Italia.
Invece nella ricerca, nella parte dove si analizza l'impatto della tecnologia e di Internet sull'evoluzione e la forma della lingua, gli studiosi arrivano alla conclusione che non solo il rischio di un uso neutro della lingua castigliana è escluso con la rete, ma "gli utenti di lingua spagnola delle diverse latitudini hanno la possibilità di intervenire attivamente nell'evoluzione del/degli idioma/i senza troppe restrizioni normative e stilistiche", che hanno invece compresso la lingua nei mass media tradizionali.
Questa evoluzione è altresi supportata dalla coesistenza e combinazione dei vari sistemi mediali (linguistico scritto, visuale, musicale, ecc.) e dalla stessa multimedialità dei mezzi della rete.
Non c'è che dire, è un bel passo avanti per "l'intellighentsia" della Real Academia de la Lengua Española, gelosa per secoli dei fasti della letteratura di lingua spagnola, da Cervantes e Lope de Vega nel '500, fino a Garcia Lorca e Garcia Marquez nel XX secolo (e ora fino a Vargas Llosa).

La ricerca occupa 10 volumi notevoli, dei quali 8 già pubblicati. E'stata presentata in diversi paesi latinoamericani, oltre alla Spagna, e negli Stati Uniti nel 2009.

Per chi volesse approfondire l'argomento:


giovedì 6 ottobre 2011

Novacaixa comincia male...

Appena nazionalizzata, e dopo neanche 24 ore dalla notizia sulle indennitá multimilionarie riconosciute agli ex dirigenti, Novacaixagalicia si é trovata di nuovo nella bufera per il ribasso ottenuto da Moody's e Fitch sul proprio debito a lungo termine.
Prima Moody's che ha inflitto un sonoro Baa3, poi Fitch che l'ha definito "deuda basura" (debito spazzatura).
Meno male che il Governatore del Banco de España, la settimana scorsa, aveva dichiarato concluso positivamente il periodo dato alle Casse di risparmio per fondersi e ricapitalizzarsi.

mercoledì 5 ottobre 2011

Lingua catalana, si o no?

Sui giornali spagnoli in questi giorni tiene banco una notizia che riguarda l'educazione scolastica in Cataluña. L'equivalente del tribunale amministrativo regionale di questa regione ha dato due mesi di tempo all'assessorato regionale alla pubblica istruzione della Cataluña per cambiare l'organizzazione delle lezioni nelle scuole locali, in quanto ha ritenuto (a più riprese, non solo ora) che la legge regionale che obbliga a far lezione solo in catalano è contraria alla Costituzione e, a fianco del catalano, le lezioni devono essere tenute in spagnolo castigliano (che ora é trattato a scuola al pari dell'inglese, cioè una lingua straniera). Ha tuttavia rimesso all'apprezzamento del governo regionale come organizzare il plurilinguismo scolastico.
(A dir la verità qualcosa di simile succede anche da noi, in provincia di Bolzano, dove ci sono scuole separate per italiani di lingua tedesca e italiani di lingua italiana, per cui me ne dovrei star zitto zitto... però questo non vuol dire che sia giusto, anzi).
Da notare che secondo le stesse statistiche fornite dall'assessorato all'istruzione catalano, il 35% della popolazione parla prevalentemente catalano, il 45% parla prevalentemente o solo castigliano (negli ultimi anni c'è stata una forte immigrazione interna da altre regioni) e solo il 17% è perfettamente bilingue, il resto parla altre lingue.
A detta degli stessi governanti catalani, la legge di "immersione linguistica" (come viene chiamata) è stata fatta apposta per riaffermare la lingua e cultura catalana contro il rischio che nel tempo divenga residuale. Ma è solo l'ultima, in ordine di tempo, a imporre l'uso del catalano nella vita di tutti i giorni.
Anche negli enti pubblici è obbligatorio conoscere il catalano e la legge impone che, preferentemente, i lavoratori del pubblico impiego parlino catalano.
Poi: le etichette dei prodotti commercializzati nella regione devono avere l'etichetta in catalano.
Poi: il 50% delle copie dei film che si distribuiscono al cinema devono essere doppiati in catalano (cosa che non succede mai...).
Poi: i docenti che sono contrattati dalle Università della regione devono conoscere sufficientemente la lingua per potersi esprimere correntemente in catalano (livello C).
Insomma, le giunte che si sono succedute nel tempo hanno posto in essere una serie di obblighi propri di uno stato sovrano, pur non essendolo.

Manco a dirlo la giunta regionale, per bocca del suo presidente e degli assessori, (partito nazionalista catalano che si chiama Convergencia i Unió) ha detto, praticamente, che non ha nessuna intenzione di riformare le lezioni, e che le cose rimarranno come sono ora, con il catalano lingua unica ufficiale a scuola e il castigliano lingua "straniera".

E' sempre difficile parlare di cose di casa altrui, bisognerebbe conoscere a fondo la storia e la cultura di un territorio per poter giudicare obiettivamente. Sicuramente pesano la storia centralistica di questo paese, appunto, e la richiesta di autonomia di una regione tra le più ricche e sviluppate della Spagna. Ma pesa, secondo me, in questo momento di crisi economica, la volontà di usare la bandiera nazionalista come specchietto per le allodole per allontanare il più possibile il dibattito sui sacrifici che la popolazione deve fare per risanare i conti pubblici e far ripartire l'economia (la Cataluña è la regione con il più alto debito pubblico fra tutte quelle spagnole).
Lasciando comunque da parte il giudizio sulla legittimità o meno delle spinte autonomiste che in questi trent'anni hanno convissuto con lo sviluppo di questo paese (ricordatevi cos'era la Spagna alla morte di Franco nel 1975, e guardatela adesso che ci ha superato come reddito pro-capite, tutta un'altra cosa...), una considerazione mi sento di fare. E riguarda il possibile sbocco di questa rincorsa per legge a imporre la lingua . E' possibile, anzi sta già accadendo e le statistiche sono lì a dimostrarlo, che se i governanti catalani continuano su questa via, ottengano un risultato contrario alle aspettative.
Primo perché una lingua non si tiene in vita per legge ma è soggetta ai processi sociali del territorio in cui è parlata, sia sotto il punto di vista dell'evoluzione e contaminazione linguistica con altri idiomi, che dell'effettivo uso per motivi di veicolazione della comunicazione e della cultura, dovuto in gran parte alla mobilità interna dei popoli con distinte lingue. Sotto questo punto di vista sarebbe meglio creare delle accademie o istituzioni di salvaguardia e sviluppo della lingua, che non imporla per legge.
Secondo perché stiamo, pian piano, assistendo all'inizio del tramonto di Barcellona come città europea per eccellenza in Spagna.
Questa meravigliosa metropoli scelta da milioni di turisti nel mondo, da centinaia di migliaia di giovani universitari attraverso Erasmus quale palestra di vita indipendente oltre che di studio, da migliaia di imprenditori europei per le sue opportunità economiche e di mercato, sta cedendo il passo a Madrid, dove non esistono tutte queste rigidità linguistiche (e commerciali).
Penso che, alla fine, la lezione sia questa: nel tempo della globalizzazione e della caduta delle frontiere nazionali (non solo i confini di stato), un territorio (e una popolazione) che si rinchiude in se stesso per paura degli altri (o per convenienza) poi ne pagherà sicuramente le conseguenze in termini economici e sociali.
Meglio aprirsi al mondo e usare le proprie tradizioni e la propria cultura come ricchezza per gli altri, confrontadosi con gli altri.