martedì 25 ottobre 2011

Negozi aperti, cervelli chiusi.

In questo periodo pre-elettorale e di crisi economica, in Spagna è in corso un confronto (tra i tanti) sulla liberalizzazione totale degli orari commerciali.
Ha dato il "la" alla questione il progetto della governatrice della Comunidad de Madrid, che prevede a breve la completa libertà di apertura di tutti gli esercizi fino a 750 metri quadrati di superficie. Invece i negozi specializzati in arredamento, bricolage, veicoli, giochi, articoli sportivi e costruzioni, potranno aprire tutte le domeniche dell'anno senza restrizioni.
Nelle previsioni del governo regionale della Comunidad di Madrid, questo aumenterà le vendite di 458 milioni di euro all'anno nel solo commercio al dettaglio, con un incremento di PIL di quasi 200 milioni di euro e più di 4.000 posti di lavoro.
La scelta è in linea con con le raccomandazioni della Comisión Nacional de Competencia (l'Autority sulla concorrenza), e con le direttive di tutti gli organismi sovranazionali quali la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l'OCSE.
Evidentemente di questa scelta sono felici le grandi catene di super e ipermercati, esse spingono affinché il prossimo governo che uscirà dalle urne del 20 novembre, estenda al territorio nazionale questa scelta ed elimini i limiti di superficie.
Contrari sono le organizzazioni del piccolo commercio, i sindacati dei lavoratori e le organizzazioni dei consumatori.
Queste associazioni chiedono che si lasci la normativa esistente e la competenza alle regioni.
La loro paura è che la liberalizzazione colpisca al cuore il piccolo commercio a base famigliare, costringendolo a competere con le grandi superfici pur non avendo le risorse umane necessarie per attendere al pubblico in un sistema senza limiti di orario. In più, uscendo dal mero campo economico, si sottolinea come vi sia la necessità di salvaguardare il tempo libero (el ocio) dei commercianti, dei lavoratori e dei consumatori, mentre la liberalizzazione degli orari imporrebbe un notevole aumento del tempo passato a fare shopping a scapito delle libere attività di svago.
Il dibattito, non c'è dubbio, è interessante, e tocca argomenti non squisitamente economici, e che attengono alla qualità della vita. A cui gli spagnoli tengono molto (ma anche gli italiani).
Un dibattito che, per esempio, ha "spaccato" persino la Chiesa spagnola, che si è divisa fra i fautori della liberalizzazione (più attenti all'economia) e i contrari più legati ad una visione "etica" delle necessità di organizzazione sociale, o addirittura tradizionale, nel senso di rispetto dei giorni di festa.
Mi sembra che, se ci fermiamo ai soli interessi delle parti (grandi catene e piccolo commercio) e allo stato attuale delle cose, questo dibattito sarà uno dei tanti che danno origine a polemiche sterili.
Soprattutto perché bisognerebbe incorporare nella discussione alcuni elementi oggettivi che hanno già prodotto mutamenti nei costumi sociali e con cui non fanno i conti né i pesci grandi né quelli piccoli. Uno di questi, per esempio, è il commercio elettronico. Nella sola Andalucia il 28% dei commercianti utilizza il canale di vendita elettronico, e questo nel solo 2010 ha creato un fatturato di 829 milioni di euro. Il direttore di Google España la settimana scorsa ha dichiarato che nel 2011 il commercio elettronico nel paese iberico arriverà a fatturare 13 miliardi di euro.
Vista da questo lato, la liberalizzazione degli orari dei negozi sembra il problema minore di adattamento alle nuove domande dei consumatori.
Se poi aggiungiamo che tutti gli indicatori dei consumi danno si costante la vendita di prodotti di lusso, assieme però a una marcata tendenza dei consumatori delle fasce medie e basse di reddito ad orientarsi verso il marchio privato (marcas blancas) e ai prodotti di primo prezzo voltando le spalle ai prodotti di marca, sembrerebbe proprio che il problema degli orari conti proprio poco per il futuro del piccolo commercio. Il quale ha sempre più difficoltà a competere con la grande distribuzione su questi prodotti perché non li può vendere, in quanto marchi propri dei grandi network commerciali.

La questione quindi è un po' più ampia di quanto la vedano le associazioni di categoria (come sempre). Si tratta di permettere una più ampia possibilità di scelta ai consumatori, favorendo tuttavia una riqualificazione del negozio al dettaglio, e incentivare l'uso dei nuovi strumenti di vendita permessi dalle recenti tecnologie.
Tutto all'interno di una programmazione pubblica degli orari delle comunità umane (servizi pubblici e privati, commerci, lavoro, ocio) che permetta alle persone di poter gestire meglio i propri tempi di vita e di lavoro. Tuttavia questo elemento, essenziale per contemperare gli interessi delle parti in campo, e soprattutto per favorire il miglior accesso dei cittadini ai servizi incrementando lo sviluppo commerciale e aumentando gli occupati, non fa parte di alcun dibattito.
Gli estremi della discussione politica vanno dal semplice approccio liberista per ideologia, al semplice conservatorismo dello status quo per paura del nuovo.

Sono un fautore delle liberalizzazioni, penso che, se fatte correttamente, siano una grande opportunità di libertà economica e di vita per la stragrande maggioranza della popolazione.
In tutti i campi, non solo nel commercio. Anzi, penso che prima vadano fatte nelle professioni, nelle telecomunicazioni, nei servizi pubblici non costituzionalmente garantiti (per me sanità, scuola, giustizia, e difesa vanno gestiti dallo Stato; può esistere la scuola privata senza oneri per lo Stato, come recita la nostra Carta).

Ma fare le liberalizzazioni senza investire in innovazione, senza creare nuovi servizi e prodotti utili alla vita delle persone (e non solo griffe e loghi), senza aggiungere qualità a quelli esistenti, porterà a risultati di breve respiro.
La crisi economica dovrebbe aiutarci a ripensare il nostro modello di sviluppo, senza buttare il bambino con l'acqua sporca, si intende. Però lavando ben bene il bambino dalla sporcizia che si è accumulata.

P.S.: Viaggiando negli USA ho sempre provato disagio a vedere i giovani e le famiglie passare ordinariamente la domenica nei "mall", i grandi centri commerciali che offrono, assieme allo shopping, anche servizi per il tempo libero (cinema, palestre, sale di lettura, giochi di simulazione dal vivo). Pensavo che sarebbe stato gramo vedere esportato questo modello "domenicale" anche in Italia (e in Europa).
Rimango sempre dello stesso parere, per me la spesa si fa durante la settimana o il sabato mattina, se vado in un centro commerciale la domenica è per andare al cinema (perché ormai non ci sono più sale in centro città).
Per cui la questione diventa anche la qualità dell'offerta culturale (o sportiva, o del tempo libero) e la capacità di attrazione della stessa riprendendosi i luoghi dei paesi e delle città.
Sono tempi di vacche magre, e gli enti locali non possono più investire come una volta in strutture e in eventi. Però possono favorire come non mai un'economia privata del loisir e della cultura, se è vero che la spesa individuale e delle famiglie in questo campo è in costante aumento. Magari traendone un vantaggio in termini di entrate per i propri bilanci.








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